La figuralità di leo

Da Assessore, nel lontano ’94, stavo studiando una nuova topografia, una ridistribuzione, una geografia teatrale, che comparve nel mio ufficio un signore, già raccontato nel vestire, già detto ma misterioso, sempre frontale se non bidimensionale, iconico e aniconico al tempo stesso. Era Leo che richiedeva, che aveva richiesto, con durezza, uno spazio, stanco di stare in affitto.

Mi guardò severo, deflorando tutti gli oggetti, i manifesti, i libri appoggiati e sparpagliati sul divano. Voleva già giudicarmi, aveva già in bocca la sentenza. Subito dopo capì che ero un pittore che faceva l’assessore, un amministratore che non faceva cultura direttamente ma che voleva far produrre cultura e quando gli dissi che Bologna stava stretta pure a me si sedette con lentezza e gli occhi incominciarono ad essere curiosi.

Parlammo di marginalità che può trasformarsi in ricchezza progettuale e della lateralità (anche se lui è stato sempre un artista centrale) come vittoria delle minoranze.

Concordammo che il teatro è un servizio e un bene culturale anche se discutemmo animosamente sulla sua socializzazione, sul suo essere eventualmente socialmente utile anche se non “immediatamente comunicabile” come avrebbe detto Eugenio Barba.

Parlammo, nel nostro lungo incontro, del vuoto legislativo che versa e versava il teatro Italiano, dall’allora abrogazione del Ministero dello Spettacolo. Parlai, ma soprattutto ascoltai a lungo, quando Leo mi raccontò delle sue esperienze, del necessario confronto, di una critica propositiva.

Risposi che il mio progetto di politica dello spettacolo si fondava sul rispetto delle libertà di scelta e dell’autonomia che voleva dire qualificare gli istituti, e quindi anche i Teatri, conferendo loro un maggior raggio gestionale. Gestire oggi, dissi, vuol dire far gestire. Noi amministratori, aggiunsi, individuiamo gli indirizzi ma non operiamo controlli se non a fine convenzione. I ruoli diversi, assunti dall’Arena del Sole, dal Testoni e dal San Leonardo (la meraviglia del mio interlocutore fu alta quando chiamai il Teatro la “Casa di Leo”, perché nel nome Leonardo c’è un Leo predestinato) mutarono la geografia teatrale della città.

Parlammo di ricerca, di sperimentazione, ma anche di tradizione. Parlammo, rubando l’espressione a Claudio Meldolesi, di “diritto al teatro”.

 

La personalità e la sua voluta “lentezza” mi colpì come una mazzata; quella sua disperata lucidità ma anche vitalità mi affascinò per inquietudine che sfuggiva alle etichette e alle omologazioni.

 

In quell’incontro gli parlai anche del progetto “Bologna capitale europea” (un progetto buttato al vento con sovvenzioni a pioggia indifferenziate) e accennai al percorso che ruotava attorno a quattro parole chiave: tradizione, comunicazione, saperi, mobilità. Cioè città di Idee/Idee della città. Identità, alterità e mobilità dei saperi e delle conoscenze.

 

Dopo un’ora ci abbracciammo.

 

Ora ricordo e rivedo quella figura capii cosa era un’officina e un laboratorio teatrale molto vicino a un atelier pubblico del pittore.

 

L’attore, l’artista come Leo, è uno sponsor del pensiero ed è l’atteggiamento, il massaggio del pensiero che fa corpo con la rappresentazione, con l’opera. Il pensiero è resistente e ti fa esistere, solo così il corpo può “incominciare ad esporsi nel mondo” (Derrida).

Esporsi per esprimersi ed esprimere per esistere: è l’esigenza di lasciare una traccia, di produrre un’idea che sia coscienza critica. Però attenzione alla comunicazione veloce, come Leo ricordava, al desiderio omologante del qui-subito-ora, che è solo apparenza e facile consenso che si brucia in un istante.

Il pensiero è duraturo e propone interrogativi, dubbi, turbamenti e penso che bisogna andare controcorrente, desiderando la lentezza per ottenere spessore e sedimentazione.

 

Non credo, come non credeva Leo, alla cultura in-diretta, alla spettacolarizzazione.

 

La parola per Leo era un bisogno non per giustificare il fare ma per rovesciare le etichette e le omologazioni. Diceva Benjamin “Chi non può prendere partito deve tacere”.

Spesso si parla di professionalità che non è un tic o un sistema impiegatizio; l’autentica professionalità concilia l’industria culturale con la ricerca dell’autonomia assoluta.

Certo esiste un Altro, un Oltre, un desiderio di identità che si incrocia con l’altro da sé: l’alterità che è forte e necessaria trasfusione. Credo, come credeva Leo, che mai come oggi bisogna smettere di omologare solo le affinità ma far galleggiare quel magnifico disturbo delle differenze per andare “oltre la crosta del mondo”, come disse De Chirico, un artista amato da Leo nel periodo Metafisico (come forse l’altro enigma magrittiano).

 

L’arte, la poesia, il teatro sono produzioni di differenza.

 

L’improbabilità deve rimanere improbabile e “la vera via -come diceva Kafka- passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per inciampare che per essere percorsa. Da un certo punto in là non c’è più ritorno. È questo il punto da raggiungere”.

 

Leo, questo evocatore di figure, lui stesso era una maschera, operava sempre per immagini, dove la stessa voce (per non parlare delle luci) era immagine ampliata dalla microfonazione. La voce e la luce (una luce del nulla) per Leo erano “visioni” e “figuralità” fantasmagoriche.

Credo molto alla teatralità nelle arti figurative (“Picasso voce recitante”, diceva criticamente Arcangeli), come nell’aspetto visivo del teatro. Penso ai due Castellucci, fratello e sorella, del “Raffaello Sanzio” che sono stati miei studenti all’Accademia. S’intravede sempre in loro una figuralità post espressionista che scende sino a Bosch.

Leo era sempre in elaborazione tra passato e presente, tra memoria e attualità. Una memoria storica che incrociava un’attualità del pensiero forte sul contempo e non certo sulla mondanità. Incrociava Dante e Shakespeare e Pasolini e Ginsberg.

Tutto poteva essere “continuativo, distruttivo, riformatore” per poter “ricominciare tutto” da la “sapienza” dell’“attore-poeta”, come riqualificava Leo. Il teatro, diceva, non è un ambiente da consumare ma una “tensione” per far affiorare l’immaginazione, che è in ognuno di noi, per far “esplodere le contraddizioni”. Fare l’attore, diceva ancora, non è un “lavoro alienante” ma una “vocazione” per poter dire quello che siamo “con rigore estremo” sino alla “crudeltà” ma sempre con una “certa tensione morale”. Manifestare in teatro è “igiene mentale”, ed io aggiungo è sempre un atto civile e culturale che inizia.

 

Il dilemma nell’arte è tra rappresentazione e presentazione, Leo, nella sua figuralità, nel corpo, nel suono, nelle luci, nell’udito, e persino nell’olfatto è tanto rappresentazione quanto presentazione… andare, appunto, “oltre la crosta del mondo”.

 

Il teatro come l’arte non è né lieve, né ottimista, né pacifista e nemmeno un iceberg di seduzione o semplice variante sempre prestabilita.

 

Mi hanno intrigato quegli artisti- attori che sono riusciti a straniarsi, a infiltrarsi e non quelli che rimanendo solo fluidi non ponevano interrogativi.

Come Leo sono contro l’indifferenziato, sono contro la globalizzazione: sono per la tribalizzazione anche se capisco il flusso ondulatorio e il desiderio di velocità impostaci dall’esterno, sono ancora per la lentezza.

La differenza sarà il turbamento, il “rossore” se non lo scarto rispetto all’omologazione. La cultura, dicevo, è disturbo e non consenso generalizzato.

Basta con l’omologare subito e catalogare. Credo ci si debba schierare contro il linguaggio dominante che annichilisce ogni spazio di ricerca e di critica per difendere il facile consenso del qui-subito-ora.

La cultura è disturbo e non consenso generalizzato anche perché l’arte, il teatro, la poesia non vanno mai a dormire, o morire, nel letto che le hanno preparato poiché il nuovo non è una categoria.

 

Il Teatro non propone cibo da mansire. L’arte di Leo apre un pensiero, non condiziona un pensiero.

L’arte e il teatro hanno il senso del passato e del suo impossibile. Ma il passato fa parte del nostro presente se si modifica di volta in volta la lettura per “ricominciare tutto”.

 

René Girard ci dice: laddove manca la differenza, c’è la minaccia della violenza.Noi desideriamo essere ancora spettatori di ciò che sta tra una singolarità ed un’altra singolarità.

 

Bisogna chiedere al fare, al proprio fare, di produrre delle interrogazioni, dei dubbi, dei pensieri.

L’arte e il teatro, si sa, sono divisi da sempre tra ORIGINARIETA’ e ORIGINALITÀ; originarietà, andare alle fonti, alla storia, alla memoria, ristabilire i valori; originalità, sperimentazione e neo-avanguardie come tradizione del nuovo.

Noi siamo per il nuovo nella tradizione, in cui originale e originario si chimano e si intrecciano, come era ancora per Leo.

 

Intervento per il convegno su Leo de Berardinis, Bologna 2007 ora nel libro “La terza vita di Leo” a cura di C. Meldolesi

 

Concetto Pozzati