Il mio Fellini

Rimini, Cinema Fulgor 25-26 novembre 2005

 

CONCETTO POZZATI

PITTORE

 

Ho forti imbarazzi a parlare di un maestro del cinema perché da anni non vado più a vedere un film dopo “l’école du regard”, dopo Godard, dopo l’overdose d’immagini. 
Un pittore, come qualsiasi altro che crede di produrre creatività riduce tutto a se stesso. Eravamo rapinatori e citazionisti e l’arte degli altri, anche quella cinematografica, era per noi un relais di attacco e di stacco.

Si sa che l’arte produce arte, o meglio, arte su arte e arte per l’arte. 
Ebbi poi l’imbarazzo e l’onore alla morte di Fellini avvenuta il 31 ottobre del ’93 di fare il discorso (aiutato da Boarini, allora direttore della Cineteca) in Consiglio Comunale di Bologna in quanto Assessore alla Cultura.

Ricordando il “Signore dell’immaginario”, artista così schivo, azzardai di accostarlo, solo per questo aspetto, al nostro Morandi. Fellini era ben diverso dal maestro bolognese in quanto amava una surrealtà fantasmagorica, d’ispirazione grottesca e surrealista. Ricordai i legami profondi che Fellini aveva nella città di Bologna in primis con Dario Zanelli e Renzo Renzi, anche loro schivi ma non “affaticati dalla gloria” che pesava invece all’affabulatore della immaginazione.

 

Si sa che il cinema è amato dai pittori perché è una struttura narrativa per immagini che pone in gioco le proprie motivazioni particolari che sono sedimento biografico, patrimonio culturale divenuto ed elaborato in inclinazione consapevole o inconscia. Esiste in Fellini un universo che oscilla tra la complicità erotica e sensoriale, tra la compiacenza e l’ossessione, tra il troppo pieno e la paura del vuoto. 
Esisteva in Fellini e nella nostra generazione una “cleptomania”, un impulso ossessivo a vedere per possedere che non è nient’altro che una “malattia intellettuale”. Esistono reciproche congiure delle immagini che scatenano spaesamento narrativo (Fellini amava sicuramente Grosz oltre Balthus che voleva fargli il ritratto, e Buñuel, se non Bosch e Jung, pure Magritte, anche se lo negava). La Biennale dell’’82 mi invita con un’opera di dieci metri intitolata Il presepe di Valdonica, in tutte le recensioni accostano questo quadro ai film di Fellini.

Ora rileggendo un mio appunto di allora penso fosse giusto anche se troppo lusinghiero: “Un affresco” recipiente. Presepe come recinto, come luogo (affollato) per darsi appuntamento, dove ognuno tenta, senza conoscersi, di colloquiare con l’altro. “Valdonica” è la via dove avevo lo studio, dove ho fatto il quadro, ma è soprattutto un luogo sino a ieri separato dalla città, emarginato, malfamato, un ghetto. Nel quadro, infatti, affiorano cose nascoste, da poco diseppellite, volutamente dimenticate… Un carnevale che non ama la carnevalizzazione, un racconto che ha bisogno di essere raccontato… Il quadro è grande, quasi “murale”, forse apocalittico e per conquistarlo, per leggerlo non puoi passeggiare parallela-mente al quadro, ma devi procedere a zig-zag, cambiando occhiali, rovesciando binocoli, allentando diaframmi… L’occhio si allontana per possedere tutta l’opera ma deve frettolosamente mettere a fuoco un aspetto che lo fa ritornare a una lettura presbite… Fellini faceva truccare a suo modo dove la maschera era l’immagine interna, nascosta o inconscia dell’attore; quasi effetto di duplicazione e sdoppiamento.

 

Tutto è redivivo, tutto può esistere ma tutto può resistere. Perché spesso la preparazione di un film di Fellini è simile a quella del pittore che magari scrive e/o disegna prima di affrontare un ciclo pittorico dello stesso tema e/o soggetto.

 

All’inizio di ogni film passo la maggior parte del tempo alla scrivania e –scrive Fellini– non faccio che scarabocchiare chiappe e tette. È il mio modo di insegui-re il film, di cominciare a decifrarlo attraverso questi ghirigori. Una specie di filo d’Arianna per uscire dal labirinto […]. Sono quelli che vado schizzando sui fogli extrastrong durante la preparazione dei miei film. È una specie di mania, scarabocchio da sempre, ero piccolissimo e stavo ore a pasticciare con matite, gessetti, colori, su tutte le superfici bianche che mi trovavo davanti, fogli di carta, pareti, tovaglioli, le tovaglie del ristorante. Persino la patente che ho in tasca è tutta piena di disegnini. Per quanto riguarda i disegnetti che schizzo agli inizi di ogni film, credo si tratti di una maniera di prendere appunti.

Sono annotati, anche nei suoi disegni, situazioni assurde e in-spiegabili.

Del resto anch’io –continua Fellini– posso testimoniare di essere stato protagonista di episodi inspiegabili. C’è stato un periodo della mia infanzia in cui, all’improvviso, visualizzavo il corrispondente cromatico dei suoni: un bue muggiva nella stalla di mia nonna? Ed io vedevo un enorme tappetone bruno-rossastro, che fluttuava a mezz’aria davanti a me: si avvicinava, si restringeva, diventava una striscia che andava a infilarsi nel mio orecchio destro. Tre rin-tocchi del campanile? Ed ecco tre dischi d’argento staccarsi lassù dall’interno della campana, e raggiungere fibrillanti le mie sopracciglia, sparendo nell’in-terno della testa.

Ho scelto 8½ perché dai racconti e dalle critiche che si sono lette si dice dell’incapacità e della “disistima” che Fellini provò nella prima stesura. 
Gli episodi autobiografici vengono paragonati nel 1963, all’uscita del film, alla Coscienza di Zeno di Svevo, a L’uomo senza qualità di Musil se non a Quando si è qualcuno di Pirandello, e a L’Ulisse di Joyce.

Guido, nel film, è un noto regista. Nei suoi sogni si incrociano ricordi e incubi e personaggi della vita privata: l’amante, la moglie, l’infermiera, preti, cardinali, genitori morti, la prima ossessione e visione del sesso con la debordante Saraghina, che è il diavolo per la coscienza cattolica.

Il titolo originario doveva essere La bella confusione, una specie di delirio, una nevrosi dell’impotenza, scambiando e chiasmando realtà e sogno, finzione e franchezza; un’osmosi tra arte e vita, tra mestiere possibile e mestiere impossibile. “Ho comprato il tuo disordine”, dice il produttore del film, nel film.

Insomma un’inquietudine barocca che criticandosi scopre se stessa.

Fellini dichiarava: “Mi piace aver paura, è un sentimento ghiotto che dà un sottile pensiero”, e Guido si definisce nel film “ragazzaccio senza più estro e talento”.
 E ancora: “Non mi ricordavo più cos’era il film che volevo fare”. 8½ sono il numero dei film girati sino a quel momento… forse era terrorizzato di aggiungere solo mezzo e non uno, un altro uno. Ha dovuto trovare zone più profonde per stimolare la fantasia (lettura su Jung) e l’inconoscibile.

In un’intervista col critico Giovanni Grazzini, Fellini ribadisce: “Rifletto che mi trovo in una situazione senza via d’uscita. Sono un regista che voleva fare un film che non ricorda più. Ecco, proprio in quel momento si è risolto tutto; sono entrato di colpo nel cuore del film, avrei raccontato tutto quello che mi stava accadendo, avrei fatto il film sulla storia di un regista che non sapeva più qual era il film che voleva fare”.

 

Anche il pittore non sa mai fare un altro quadro, ma fare un’altra opera è la sola vittoria e salvezza. Ma per essere grandi bisogna imparare a disimparare. È questa la grande lezione che ci ha dato Fellini.