1935

pozzati bambino

Concetto Pozzati nasce il 1 dicembre del 1935 a Vò, in provincia di Padova. Il padre Mario Pozzati è un artista emigrato in Argentina per fare il cartellonista pubblicitario, amico di De Chirico, De Pisis, Carrà, Guidi, Licini e Morandi, che lo chiamava il “milionario” perchè aveva fatto fortuna negli anni Venti. Lo zio è Severo Pozzati, detto Sepo, attivo sia in Francia sia in Italia, uno dei più importanti cartellonisti pubblicitari della prima metà del Novecento. Nel 1942 Mario decide di trasferirsi con la famiglia ad Asiago (Concetto ha una sorella più grande, Chiara, che sposerà un altro artista, Wolfango) dove morirà nel 1947, lasciando nel figlio dodicenne un vuoto incolmabile e una nostalgia nella pittura che esploderà  solo alla fine degli anni ’50, quando trasferitosi a Bologna, si diploma nel 1955 all’Istituto statale d’arte.

1955

Concetto Pozzati si diploma all’Istituto statale d’arte e in quel periodo il clima artistico della città dominato dall’Informale, ha in Francesco Arcangeli il suo punto di riferimento: le Teste che Pozzati dipinge hanno una forte tensione drammatica e una inquietudine esistenziale, descritta così nei suoi scritti (che sono una lettura fondamentale per chi voglia accostarsi alla sua pittura): “Preferisco il volto che la ….testa. Il volto è uno spaccato verticale disegnato su segni. La somma fa apparire un volto: un volto di segni appunto. La testa, invece, è fatta di buchi, di fosse nere, di orifizi e ha bisogno di materia”

1959

Il 1959 è un anno importante per Pozzati perchè esce dai confini cittadini e approda alla Galleria romana La Salita e a quella milanese dell’Annunciata dove conosce Carlo Carrà, vecchio amico del padre, e Lucio Fontana, che acquista un quadro tra quelli esposti. Da questo momento, fino al 1962, nelle tele cominciano a formarsi delle morfologie organiche, che esprimono la voglia di uscire dall’informale per trovare sempre una più chiara definizione dell’immagine.

1963

Tra il 1963 e il 1965 l’artista è presente alle Biennali di Tokio, di San Paolo del Brasile, di Spoleto e di San Marino e tocca il vertice della sua popolarità partecipando a soli 28 anni alla XXXII Biennale di Venezia, chiamato da Cesare Gnudi e Maurizio Calvesi: una Biennale storica che segna l’esordio in Italia della Pop Art americana che proprio a Venezia trova la sua consacrazione. Dopo poco arriva un altro invito importante a livello internazionale, quello di partecipare alla III Documentata di Kassel, dove espone nella stessa sala di Jasper Johns. La Pop Art di Concetto Pozzati ha una sua peculiarità, che si avverte soprattutto nella definizione dello spazio e nell’impaginazione degli oggetti, che appaiono come messi in fila e che diventano icone della contemporaneità. In una intervista uscita su Bolaffiarte del 1976, alla domanda Che cosa ha rappresentato la Pop Art per la sua generazione, Pozzati rispondeva: “Mettere a fuoco il concetto di mercificazione. Abbiamo capito che qualsiasi forma artistica era un prodotto come tutti gli altri: era soltanto una merce. A differenza degli americani, per noi però, non si è mai trattato di glorificare le merci, ma semmai la consapevolezza di ridurre l’arte a merce….Capii che le immagini private non solo si scontrano con quelle pubbliche-cartellonistiche, ma che il privato e il pubblico si scambiano le parti. Ad esempio la pera (che era quella del manifesto “derby pera”) utilizzata da me diventava la Pera Pozzati. Il prodotto univa in sé tutte le contraddizioni linguistiche”.

1967

Dal 1967 nei quadri di Pozzati compare un elemento nuovo che dialoga con la pittura: lo specchio. Ecco allora l sagome delle pere e dei pomodori fatte di specchio, restituire all’osservatore l’immagine di se stesso nell’atto di guardare e dell’ambiente circostante, come a volere sottolineare la duplicità della pittura fatta di finzione e di natura, di manualità e di intervento mentale. In una intervista con Tommaso Trini nel 1973 dirà: ” E’ vetro specchiante, ovviamente specchio, cioè vetro argentato a mano. L’ho scelto volutamente, con tutta la consapevolezza del finto consumo, del fatto che fra tre anni  lo specchio sarà meno splendente, che fra dieci comincerà a fare buchi e fra quindici sarà vecchio…. Che cos’era? Era la pera che diventava regardeuse, cioè era la pera guardata che allo tempo conteneva altre immagini che la guardavano. E allo tempo però era anche un’immagine che faceva la guardia a se stessa.” Dal 1967, anno in cui Pozzati comincia ad insegnare all’Accademia di Belle Arti di Urbino, al 1972 inizia la fase più dissacratoria  del suo lavoro.

1972

Pozzati ironico, Pozzati “rapinatore”, Pozzati “guardone”, sono tutte etichette date dalla critica più attenta (Guido Ballo, Enrico Crispolti, Giuseppe Marchiori, Roberto Sanesi, Tommaso Trini, Alberto Boatto) capace di seguire il percorso dell’artista negli anni 1973-76, quelli delle “idee” e della “restaurazione” (ricordiamo che nel 1972 Pozzati espone alla XXXVI Biennale di Venezia  e alla X Quadriennale di Roma  e nel 1974 ha una grande antologica a Palazzo Grassi a Venezia, che diviene occasione per la critica per affermare globalmente il discorso sulla pittura). Di se stesso, sul catalogo della personale al Palazzo delle Esposizioni di Roma del 1976, il pittore dice: “La rapina, la libertà di rapina da me rivendicata (Marchiori mi definì, con spirito di avventura, il “corsaro della pittura”) non era prestito o saccheggio ma l’utilizzazione critica di un arsenale fatto e creato per servire, per essere usato. USARE  È FARE”.

1977

Dal 1977 al 1979 Pozzati inserisce nei suoi nuovi lavori elementi personali, immagini private, il tempo del ricordo: ancora una volta la dualità tipica dell’artista, tra memoria personale e memoria storica, tra storia privata e storia pubblica. Nasce il ciclo “Fuori dalla porta”, dove vecchie fotografie, schizzi, buste di lettere, cartoline, vengono inglobate in colla vinilica colorata, facendole prematuramente ingiallire.

1980

Su “Dopo il tutto”, il titolo di un suo famoso lavoro del 1980, Pozzati scrive: “Dopo il tutto dove galleggia tutto, dove il tutto è uguale perché è stato fatto tutto, perché si può fare tutto, perché non si rincorre né si progetta il nuovo e il futuro. Un inventario della fine, un catalogo sulla non differenza dei segni e delle immagini”. Il “ritorno alle origini” degli anni ‘80 significa per Pozzati tornare ad essere prima di tutto un pittore: ne è testimonianza il grandissimo quadro per la Biennale di Venezia del 1982, fatto di cinque pannelli che ospitano un eterogeneo repertorio di citazioni storiche e artistiche, in una vertiginosa iperbole narrativa che assorbe ogni modello per possederlo con un amore ironico e disincantato. Seguono i cicli “Ellade”, un ritorno all’arte classica, al grande mito; “Pani di pietra” e “A che punto siamo con i fiori”, uno dei cicli più belli e intensi, dove la pittura materica cresce in spessori ordinati: i fiori di Pozzati sono “fiori perduti, immobili, esiliati, oltrenatura.  Fiori senza umori, pentimenti, modificazioni ma solo simulazioni e pretesti per dipingere pittura” scrive l’artista.

1990

Del 1990-1991 è il ciclo “Impossibile paesaggio”, che viene esposto per la prima volta alla grande antologica del 1991 tenuta alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, la prima che gli viene dedicata nella città in cui vive, insegna e dipinge. Gli anni ’90 si chiudono con un ciclo drammatico, un senso di impotenza e di perdita permea le “Sentinelle dal becco avvelenato”, mentre arriva il nuovo secolo e ancora di più Pozzati si sente a disagio nel mondo globalizzato, ha paura della finta socializzazione, della comunicazione veloce e sa di avere bisogno di lentezza, di un silenzioso disagio: questo ci raccontano i cicli “Il pittore burattinaio” del 2002, “Torture” del 2004, “de-posizioni” del 2006.

2006

Il 2006 è un anno drammatico per la famiglia perché se ne va dopo una lunga malattia Roberta, la compagna di una vita, la donna che segue le economie familiari e le cose pratiche, che lo accompagna in tutte le occasioni pubbliche. E’ di questi anni “Ciao Roberta”, una indagine affettuosa sugli oggetti personali, le pantofole, i meravigliosi cappelli, gli abiti, le borse e le scarpe che galleggiano su tele grezze, sprigionando una luce e una leggerezza non ritrovabili in nessun altro lavoro. Su questo ciclo l’artista scrive: “I quadri sono morbidi, non sono luttuosi, sono luminosi perché ogni persona ha in sé un suo colore e mia moglie indossava abiti e il vestirsi, per lei, era un modo di essere: soggettivo e intenso come “seconda pelle”, come il bianco luminoso del suo portamento. Non ho chiesto niente di spettacolare e niente di sensazionale. Ho visto e ho ricordato cose di ieri con gli occhi di oggi. Le cose della propria compagna vanno dette e dipinte con pudore e col silenzio intrecciato e infetto dalla solitudine. Esiste quindi un privato ri-trovato contro un pubblico globalizzato, un privato che la pittura custodisce. I quadri silenziosi, producono, paradossalmente un eco “pieno di vuoto”, una profondità intima e nascosta per potermi riparare. Ho sempre voluto tramare, ora vorrei solo tramandare”.

2007

Il 2007 è l’anno di nuovo ciclo dedicato agli oggetti personali “A casa mia”, un inventario di cose proprie, contenute negli armadi di casa, in cucina, nella stanza dialetto e in soggiorno, “un invito e venire a trovarmi, per scoprire il mio nascosto”, un altro momento di solitudine esistenziale che trova in questo ciclo un silenzio e una intimità espressi da una pittura sempre più attenta ai particolari e alle piccole del quotidiano. Con “Tempo sospeso”, “Cornice cieca” e “Quasi dolce” (2008, 2010 e 2011), Concetto Pozzati torna ai colori pop, agli azzurri forti, ai rosa e ai rossi fluorescenti, ai gialli canarino che emergono da sfondi color piombo: gli oggetti appaiono come sospesi: “Un tempo da natura morta s’incontra con il tempo della pittura, una pittura del con-tempo, un tempo esecutivo, un tempo del fare”.

2012

Contro la velocità del tempo globalizzato, della comunicazione rapida e omologata nasce il ciclo “Occupato” del 2012: nei quadri solo vecchi telefoni con la cornetta come a volere sottolineare l’incomunicabilità della pittura, la sua intrasmissibilità: “Quanti telefoni e quante comunicazioni, quante parole senza filo. Quanti intrecci, quanti occupati. Vorrei “scomunicare” più che comunicare, una comunicazione che è tutta equivalente per il flusso informativo”, scrive l’artista.

2014

“Sotto chiave” del 2014, è un ciclo che parla solo di chiavi, che per Concetto sono oggetti importanti: ne ha tante in studio, di quelle vecchie e pesanti, di ferro, per lui portano fortuna, come i ferri di cavallo: “Sono notoriamente molto superstizioso e le chiavi sono un portafortuna, se non la dialettica del chiuso-aperto-chiuso”. Sono anni in cui l’artista non sta bene, dopo aver avuto problemi di cuore si aggiungono quelli renali ed è stato più volte operato; ciononostante continua la sua attività espositiva, quella editoriale e quella culturale presso l’Accademia di San Luca  a Roma (di cui è accademico dal 1995 e consigliere accademico dal 2005).

2015

Alla fine del 2015 comincia l’ultimo ciclo, “Vulvare”, un omaggio all’origine del mondo, alla vulva-vagina: gli ultimi quadri dipinti dall’artista sono tutti con lo sfondo rosa o con la tela grezza dove immense vulve si fanno fiore o frutto, grazie ad un processo di stilizzazione che ricorda i lavori degli anni Settanta nella loro ortogonalità ed essenzialità. L’ultimo scritto di Concetto Pozzati termina così: “Lei, quella cosa, la si pratica con la pittura e la carnosità della pittura stessa si fa vulva del desiderio, perdendosi nell’abisso rosa e tiepido. Magari avvicinandosi e perdendosi a “L’origine del mondo” del 1866″.

2017

Una vita dedicata alla pittura quella di Concetto, che ancora, pochi giorni prima di morire, parla di lavoro, progetta mostre, scrive per una nuova pubblicazione di scritti d’artista, incontra amici artisti e intellettuali: si spegne il 1 agosto del 2017, nella sua camera da letto a Bologna, attorniato dall’affetto dei figli Maura e Jacopo e dai quadri del padre Mario alle pareti.