Arte come critica d’arte

Credo solo nella “storia” del fare e dell’aver fatto e non, pur confortevole, quello che hanno detto e scritto su di me. Una storia meritata o fortunata ma vasta, ampia, internazionale, che già nel ’60 non ammetteva una critica indifferenziata. La storia di un pittore, la propria storia, la si produce in mostre nei musei e istituzioni internazionali, fondando scuole e corsi sul linguaggio della pittura, partecipando come relatore ai dibattiti, dirigendo istituzioni culturali e museali e, magari, fondando convegni critici sulla stessa critica.

 

Tanti ti chiedono, dopo anni, come erano le Biennali di Venezia, di San Paolo, di Tokio, di Parigi, di Kassel, o come era la mostra del ’72 “Tra rivolta e rivoluzione” e il suo convegno “L’intellettuale di fronte al suo impegno politico”. Ma tutti, quelli che ancora ti intervistano, vogliono informarsi sulla Biennale del ’64 dove lo strapotere statunitense allungò il padiglione per esporre opere che non erano state invitate.

 

Ma sono invece sempre (è già troppo ricordarlo oggi) richiesto a parlare del primo convegno europeo tenuto a Bologna nel ’79 “Autonomia critica dell’artista”. Fu un successo tale che quasi tutta la critica si rivoltò e compatta costrinsero Porta a non pubblicare da Feltrinelli gli atti e le relazioni ( da Nevelson a Tapies, da Max Bill a Fabio Mauri, ecc.) già corretti in bozza.

 

Fummo odiati e alcuni di noi non più invitati.  Ma non capirono che non volevamo sostituirci alla critica ma richiedevamo il diritto “autonomo” della parola perché stanchi di essere servi di scena.

 

Recentemente per la Fondazione Zeri, Jean Clair, scrive un saggio dicendo che ci sono solo due figure che non si possono eliminare: gli psicanalisti e gli esperti d’arte che hanno, come un medico, il diritto di affiggere alla porta una targa di ottone che dichiari la propria professione e, come un medico, fanno diventare tutto veritiero e credibile, anche le medicine (gli artisti) che non servono.

 

E pensare che già nel ’63 parlavamo di “falso più vero del vero” ma non certo “titolizzando il nulla”.

 

Esiste una voluta e ricercata banalità della cultura, una ricerca dell’ordinario, dovuto all’indifferenza civile, di una società falsa, arrogante e perversa. Esiste un bombardamento della comunicazione, una finta e soggettiva eccitazione che annulla il turbamento perché l’arte non è né lieve, né ottimista, né pacifista e nemmeno un iceberg di seduzione.

 

La cultura è disturbo e non con-senso generalizzato anche perché l’arte non va mai a morire nel letto che le hanno preparato perché il “nuovo” non è una categoria.

 

La critica deve sottolineare che l’arte è menzogna (quale?) e dovrebbe falsificare le affermazioni (quali?) in quanto la stessa arte preferisce l’inganno alla sterile realtà. “Andare oltre alla crosta del mondo” sottolineava De Chirico e persino Degas diceva che l’arte richiede inganno come un crimine.

 

E la critica si è mai posta questa terribile dualità? Ha mai inteso la critica del sistema politico dell’arte comparabile alla produzione stessa?

 

Il quadro, l’opera, è spesso intesa come costruzione linguistica di un messaggio, di un pensiero che ha bisogno anche delle mani (Heidegger), ma spesso va oltre e dice che il concetto di scrittura (mitografia) è teoricamente più comprensivo di un pezzo di lingua.

 

C’è bisogno di una visione /(che non è la tele-visione) che rifaccia galleggiare la divisione dell’arte tra originalità (il critico artista logicamente militante) e originarietà (andare alle fonti, riprodurre memoria: lo storico dell’arte).

 

Le due immagini si possono anche intrecciare dove originale e originario si chiasmano.

 

Ma alla critica, pur spesso smemorizzata, non basta in quanto si divide “in normale” ma sostanziabile e illiminabile critica d’arte o solo arte della critica (Lyotard, Bonito Oliva) cioè “artisti della critica”.

 

I critici creativi (anche il critico ha bisogno della sua parzialità) sono stati degli inaccettabili sostituti, dei regressori, dei reazionari rispetto all’arte che è diventata, lei stessa, critica e coscienza autocritica.

 

Fare arte significa dialetticamente criticare l’arte, interrogare l’arte, fare dell’arte un altro dell’arte.

 

La critica è un’opera , diceva Lyotard, ma l’opera ha già la sua critica. Il critico sbagliò a travestirsi d’artista in quanto dovrà, per essere altro, compiere una recita autocritica e, questa recita, avrà per contenuto la critica del proprio ruolo, del proprio potere, della stessa professione di critico.

 

La critica dovrebbe (avrebbe dovuto) svelare e “raddoppiare” la stessa intrinseca criticità dell’opera che è disponibile a farsi catturare e chi cattura la sua lettura interna opera una ri-creazione attiva ma mai sostitutiva e concorrenziale.

 

Dopo la critica d’arte o alla ormai desueta arte della critica noi siamo ancora per la critica dell’arte, cioè critica del sistema politico dell’arte (il teorico è stato Pietro Bonfiglioli). Noi siamo ancora per la critica dell’arte ma dopo la fine, la morte dell’arte della critica, quindi del critico come artista, del critico creativo vorremmo si ritornasse all’autentica critica d’arte non certo globalizzata e indifferenziata, non solo ermeneutica, né esame, né  valutazione, né recensiva, né, ovviamente, censura. È quel non detto che l’artista che non sa che deve divenire un corto circuito attraverso la parola che incontra le immagini.

 

Vorrei che la “parola” riacquistasse l’evocazione persa durante l’omologazione. Bisogna per non essere indifferenziati, che la critica cerchi il nascosto, quello che non si vede se non andando “oltre la crosta del mondo”.

 

Ci vuole uno sguardo che ritorni ad essere differente che non proponga, anche civilmente, le solite interpretazioni, i soliti superficiali esercizi di ermeneutica o di storia ma che entri nel mistero della creazione.

 

Voglio alimentare la separatezza tra lo storico dell’arte e il critico militante.

 

Diceva Adorno: “in ogni opera d’arte ….appare qualcosa che non c’è”. È quel qualcosa, quel conflitto che la parola del critico deve svelare interrogandosi anche sulla propria perdita o sull’imprevisto, che non è mai del tutto equivalente.

 

Basta con il tutto dicibile ma interrogarsi sempre sull’indicibile.

 

Concetto Pozzati